Roberto Manfredi – once upon a time there was a sea
In recent decades, a huge environmental disaster has taken place, almost unknown, but perhaps the most serious; serious because widely foreseen since 1964 by specially commissioned studies and yet consciously pursued.
The Aral was a large salt lake, almost three times the size of Sicily. So big that it is called “sea”, the Aral Sea. And it was very fishy.
Moynak, Uzbekistan, was once a charming town on the shores of the Aral Sea. Today it no longer laughs, because the Aral doesnt exist anymore. it lived thanks to fishing and processing the catch, canned on the spot in a factory whose products supplied the whole USSR, of which Uzbekistan was a part.
But in the last century the USSR wanted to develop agriculture in semi-desert areas, drawing irrigation water from the tributaries of the Aral. It was known that the Aral would die, but it was also thought to exploit the new lands emerged for this cultivation.
The waters began to recede from 1960. By 2007, 90% of the Aral had disappeared; The salinity of the remaining water had increased tenfold, making life impossible. The fishing fleet was left to rust on the dried up bottom of the lake. The processing of fish continued by canning the catch of the Baltic Sea, transported to Uzbekistan by thousands of kilometers, and then redistributed thousands of kilometers away. But the dissolution of the USSR made this system unsustainable, and the factory was abandoned, leaving the inhabitants without resources: agriculture is also impossible, because the waters of the Aral, retreating have left on the ground a concentrate of salt, fertilizers and pesticides, with the addition of toxic waste thrown into the water from a Soviet military base, located on an island in the middle of the Aral.
When the weather becomes hot and dry, which happens very often, the soil becomes dusty; The wind carries this toxic dust on the city and its inhabitants, but it also reaches hundreds of kilometers.
The only thing that grows are miserable brushwood, good only for goats and sheep. For the rest you can see men and children in the rubble of what was once the fish factory, looking for ferrous scrap to sell for a few pennies. There is no running water, there are no sewers. Children playing in the dusty streets, smiling happily like all children, are the only note of hope.
You go to Uzbekistan to see the fabulous Samarkand and the ancient cities that dotted the Silk Road. But to visit the Aral means to visit something that is not there, a non-place, a non-sea, full of non-water and non-life. An expanse of kilometers of white shells in the desert. They are not the fossil shells that are also found in the mountains: they are shells that only a few years ago housed a living being and are now there to cover what was a seabed.
Meanwhile, ghost ships sail the desert, guided by an extinct lighthouse that rises where there is no longer the coast.
VERSIONE ITALIANA
Negli ultimi decenni si è consumato un enorme disastro ambientale, quasi sconosciuto, ma forse il più grave; grave perché ampiamente previsto fin dal 1964 da studi appositamente commissionati e ciò nonostante scientemente perseguito.
L’Aral era un grande lago salato, quasi tre volte la Sicilia. Tanto grande da essere chiamato “mare”, il Mar d’Aral. Ed era molto pescoso.
Moynak, in Uzbekistan, era un tempo una ridente cittadina sulle rive del Mar d’Aral. Oggi non ride più, perché l’Aral non c’è più. Viveva grazie alla pesca e alla lavorazione del pescato, inscatolato sul posto in una fabbrica i cui prodotti rifornivano tutta l’URSS, di cui faceva parte l’Uzbekistan.
Ma nel secolo scorso l’URSS volle sviluppare l’agricoltura in zone semidesertiche, attingendo le acque d’irrigazione dagli immissari dell’Aral. Si sapeva che l’Aral sarebbe morto, ma si pensava di sfruttare anche le nuove terre emerse per questa coltivazione.
Le acque cominciarono a ritrarsi dal 1960. Nel 2007 il 90% dell’Aral era sparito; la salinità dell’acqua rimasta era decuplicata, rendendo impossibile la vita. La flotta di pescherecci fu abbandonata ad arrugginire sul fondo prosciugato del lago. La lavorazione del pesce però continuò inscatolando il pescato del Mar Baltico, trasportato in Uzbekistan da migliaia di chilometri, e poi ridistribuito a migliaia di chilometri di distanza. Ma la dissoluzione dell’URSS rese insostenibile questo sistema e la fabbrica fu abbandonata. Lasciando gli abitanti senza risorse: anche l’agricoltura è impossibile, perché le acque dell’Aral, ritirandosi hanno lasciato sul terreno un concentrato di sale, fertilizzanti e pesticidi, con l’aggiunta delle scorie tossiche gettate in acqua da una base militare sovietica, situata in un isola in mezzo all’Aral.
Quando il clima diventa caldo e secco, il che accade molto spesso, il terreno diviene polveroso; il vento porta questa polvere tossica sulla città e i suoi abitanti, ma arriva anche a centinaia di chilometri.
L’unica cosa che cresce sono dei miseri sterpi, buoni solo per le capre e le pecore. Per il resto si vedono uomini e bambini tra le macerie di quella che era la fabbrica del pesce, alla ricerca di rottami ferrosi da vendere per pochi spicci. Non c’è acqua corrente, non ci sono fognature. I bambini che giocano per le strade polverose, sorridendo felici come tutti i bambini, sono l’unica nota di speranza.
Si va in Uzbekistan per vedere la favolosa Samarcanda e le antiche città che costellavano la via della seta. Ma visitare l’Aral, significa visitare qualcosa che non c’è, un non-luogo, un non-mare, pieno di non-acqua e di non-vita. Una distesa di chilometri di conchiglie bianche nel deserto. Non sono le conchiglie fossili che si trovano anche in montagna: sono conchiglie che solo pochi anni fa ospitavano un essere vivente e ora sono li a tappezzare quello che era un fondale.
Intanto le navi fantasma solcano il deserto, guidate da un faro spento che sorge dove non c’è più la costa.